Non so mai cosa aspettarmi, nel momento in cui partecipo ad un live. Ci sono tante variabili: il benessere o la stanchezza dell'artista, il momento della tournée, il clima, la risposta del pubblico, la scaletta, il fatto di aver già ascoltato o meno quel cantante.
Fiorella Mannoia mi è sempre piaciuta, è forse l'interprete femminile italiana vivente che più apprezzo. Conosco moltissime delle sue canzoni e ammiro la sua estensione e il modo di “entrare” dentro ai pezzi. Insomma, era giunto il momento di andarla ad ascoltare per la prima volta dal vivo.
Torino, Auditorium del Lingotto. L'occasione di visitare finalmente una città in cui sono stata un sacco di volte ma che non ho mai visto realmente (e vacci per un concorso, e vacci per cantare dal Papa, e vacci per la Sindone prima di tornare a lavoro, e vacci mezza giornata per l'ordinazione diaconale di un compagno di scuola... finalmente ho visto la Mole, la basilica della Consolata, il Mercato, il Valentino e mi sono fatta un giro sul Tram 7, quello storico!) e, ancora più, l'occasione di ritrovare la mia amica Silvia, che ho conosciuto anni or sono alla Hope Music School, che ho rivisto più volte per cose di musica e che non incontravo da almeno 4-5 anni: una pizza insieme, e poi tutte e due al concerto...
Ecco, il concerto. Lei, Fiorella, entra in scena e, prima che inizi a cantare, mi chiedo come farà a stare in piedi per tutto il tempo: ha dei tacchi altiiiiiiiiisssssssimi e sottiliiiiiiiiisssssssimi. Infatti non sta in piedi per tutto il tempo: le scarpe se le leva dopo poche canzoni e continua la serata così. A volte si siede su uno sgabello. Ad un certo punto, si siede per terra, a gambe incrociate. Come cavolo faccia a cantare così, in quella posizione, senza sbavare, senza apparente fatica, mi resta un mistero. Quello che conta è che, seduta così, sembra a casa propria e pure a me pare di stare in un luogo conosciuto in cui mi sento a mio agio, come si conoscessi da sempre tutti gli altri presenti.
All'inizio snocciola i brani del nuovo album, “Personale”. Ci sono alcune canzoni cui mi sono appassionata fin dal primo ascolto: “Il peso del coraggio”, “Imparare ad essere una donna”, “Carillon”. Credo che sia perché per me è un periodo di scelte, un momento in cui sento di dover prendere coscienza di me stessa per ciò che veramente sono e voglio essere.
Non le manda a dire, Fiorella. Non fa polemica aperta, ma riferendosi senza citazioni esplicite a chi qualche tempo fa disse che “dovrebbe pensare a cantare” replica dal palco che “si può dire ciò che si pensa anche cantando”. E intona “Povera patria”, di Battiato, in acustico che più acustico non si può. Segue proprio “Carillon” e poi “Nessuna conseguenza”. E niente, in silenzio piango. Non sono solo le parole a toccare le corde dell'anima: è quel modo di cantare, composto, intenso, mai sguaiato, quella voce profonda, calda, che in qualche modo grida anche sottovoce, perché diviene voce di tanti pensieri, di tante storie.
Non c'è spazio per troppi brani del suo repertorio passato. In compenso, non mancano le cover. Fossati, dopo Battiato, e poi De Gregori e Vasco. Mi colpisce come tratta queste canzoni: con rispetto, quasi con sacralità. Le fa proprie, senza stravolgerle. Dà qualcosa in più di sé, senza togliere niente a ciò che già il brano dava. Ché alla fine, a cantare le note in fila son bravi in tantissimi, a inventarsi cose strane riescono in tanti, ma essere un'interprete vera è un'altra storia.
“Sally” la fa chiudere al pubblico. Fa un po' ridere: è come quando Meta fa intonare al pubblico “Piccola anima”, anche stasera sembriamo tutti intonati, perfettamente a tempo, voci che vanno all'unisono, forse come i cuori... poi vai, che so, negli oratori e non ce n'è uno che batta le mani a tempo. Mistero.
“Il cielo d'Irlanda” è l'ultimo brano della serata. Nuovo arrangiamento: la band sostiene Fiorella meravigliosamente. Chiudo gli occhi e mi sento veramente in Donegal, o a Doolin, al porto, seduta sugli scogli con lo sguardo alle Aran, tra stracci di nubi nel cielo azzurro. “Ogni volta che gliela sento cantare, penso a te!” mi dice Silvia, mentre mi riporta in ostello. Pure io. Che, con un pezzo di cuore nel Burren e uno al Lingotto, se mi chiedi cosa voglio in questo momento è imparare ad essere la donna che sono, fino in fondo.
Fiorella Mannoia mi è sempre piaciuta, è forse l'interprete femminile italiana vivente che più apprezzo. Conosco moltissime delle sue canzoni e ammiro la sua estensione e il modo di “entrare” dentro ai pezzi. Insomma, era giunto il momento di andarla ad ascoltare per la prima volta dal vivo.
Torino, Auditorium del Lingotto. L'occasione di visitare finalmente una città in cui sono stata un sacco di volte ma che non ho mai visto realmente (e vacci per un concorso, e vacci per cantare dal Papa, e vacci per la Sindone prima di tornare a lavoro, e vacci mezza giornata per l'ordinazione diaconale di un compagno di scuola... finalmente ho visto la Mole, la basilica della Consolata, il Mercato, il Valentino e mi sono fatta un giro sul Tram 7, quello storico!) e, ancora più, l'occasione di ritrovare la mia amica Silvia, che ho conosciuto anni or sono alla Hope Music School, che ho rivisto più volte per cose di musica e che non incontravo da almeno 4-5 anni: una pizza insieme, e poi tutte e due al concerto...
Ecco, il concerto. Lei, Fiorella, entra in scena e, prima che inizi a cantare, mi chiedo come farà a stare in piedi per tutto il tempo: ha dei tacchi altiiiiiiiiisssssssimi e sottiliiiiiiiiisssssssimi. Infatti non sta in piedi per tutto il tempo: le scarpe se le leva dopo poche canzoni e continua la serata così. A volte si siede su uno sgabello. Ad un certo punto, si siede per terra, a gambe incrociate. Come cavolo faccia a cantare così, in quella posizione, senza sbavare, senza apparente fatica, mi resta un mistero. Quello che conta è che, seduta così, sembra a casa propria e pure a me pare di stare in un luogo conosciuto in cui mi sento a mio agio, come si conoscessi da sempre tutti gli altri presenti.
All'inizio snocciola i brani del nuovo album, “Personale”. Ci sono alcune canzoni cui mi sono appassionata fin dal primo ascolto: “Il peso del coraggio”, “Imparare ad essere una donna”, “Carillon”. Credo che sia perché per me è un periodo di scelte, un momento in cui sento di dover prendere coscienza di me stessa per ciò che veramente sono e voglio essere.
Non le manda a dire, Fiorella. Non fa polemica aperta, ma riferendosi senza citazioni esplicite a chi qualche tempo fa disse che “dovrebbe pensare a cantare” replica dal palco che “si può dire ciò che si pensa anche cantando”. E intona “Povera patria”, di Battiato, in acustico che più acustico non si può. Segue proprio “Carillon” e poi “Nessuna conseguenza”. E niente, in silenzio piango. Non sono solo le parole a toccare le corde dell'anima: è quel modo di cantare, composto, intenso, mai sguaiato, quella voce profonda, calda, che in qualche modo grida anche sottovoce, perché diviene voce di tanti pensieri, di tante storie.
Non c'è spazio per troppi brani del suo repertorio passato. In compenso, non mancano le cover. Fossati, dopo Battiato, e poi De Gregori e Vasco. Mi colpisce come tratta queste canzoni: con rispetto, quasi con sacralità. Le fa proprie, senza stravolgerle. Dà qualcosa in più di sé, senza togliere niente a ciò che già il brano dava. Ché alla fine, a cantare le note in fila son bravi in tantissimi, a inventarsi cose strane riescono in tanti, ma essere un'interprete vera è un'altra storia.
“Sally” la fa chiudere al pubblico. Fa un po' ridere: è come quando Meta fa intonare al pubblico “Piccola anima”, anche stasera sembriamo tutti intonati, perfettamente a tempo, voci che vanno all'unisono, forse come i cuori... poi vai, che so, negli oratori e non ce n'è uno che batta le mani a tempo. Mistero.
“Il cielo d'Irlanda” è l'ultimo brano della serata. Nuovo arrangiamento: la band sostiene Fiorella meravigliosamente. Chiudo gli occhi e mi sento veramente in Donegal, o a Doolin, al porto, seduta sugli scogli con lo sguardo alle Aran, tra stracci di nubi nel cielo azzurro. “Ogni volta che gliela sento cantare, penso a te!” mi dice Silvia, mentre mi riporta in ostello. Pure io. Che, con un pezzo di cuore nel Burren e uno al Lingotto, se mi chiedi cosa voglio in questo momento è imparare ad essere la donna che sono, fino in fondo.