Dopo un venerdì di quelli che, se per ogni rottura di balle m'avessero dato una perla, ora avevo un collier a doppio giro..., sabato mattina parto: destinazione Genova.
Primo treno in ritardo, secondo pure, ma ho calcolato tutto per contemplare anche l'imprevisto. Giunta a Milano, mi toccano due diverse metropolitane. Ora, c'è una sola cosa a Milano che io detesti più della metropolitana: l'autostazione di Lampugnano. E da dove mi parte il Flixbus, se non da lì?
Nonostante sia una splendida giornata, opto per entrare in biglietteria: all'esterno il puzzo di piscio e il tasso di gente che non si regge in piedi non fanno venire voglia di valutare alternative... Mi siedo e, improvvisamente, di fronte a me si materializza Antonio, un caro amico marchigiano. Non è lui, ovviamente, gli assomiglia. Per la verità, somiglia parecchio pure ad un ragazzo con cui suono in banda, che però non ha nulla a che fare con Antonio. Ecco, è tipico: quando mi sento in situazioni in cui mi sento un po' persa, inizio ad avere queste visioni. All'improvviso, una pallottolina vestita di rosa si schianta sul mio ginocchio e comincia a ridere. Mi tocca, vuole giocare. Non è una visione, stavolta: lei c'è. Una bimba di colore bellissima. C'è un sacco di gente, realizzo, e con la pelle chiara saremo in quattro, comprese due orientali. Deformazione professionale, inizio a giocare con la bimba. Cade e arriva un bimbo un po' più grande ma più smilzo, lui pure di colore, che la rialza e, considerata la differenza di peso, cade pure lui. A quel punto, cadono anche tutte le valigie. Una delle due orientali ed io aiutiamo a raccoglierle e continuiamo a giocare con i bambini. Sorrisi, versetti. Chissà se almeno tra loro parlano la stessa lingua. Non saprei. Visto da fuori, sembra una di quelle foto delle missioni in Kenya. Ed ecco che si materializza Salvini. Ah no, è un autista. pure lui sorride ai bambini e fa "ciao ciao" con la mano. Il bimbo è serio, la bimba ride. A me, invece, viene il magone. Perché c'è qualcosa di bellissimo, in questo momento. Sarà che ultimamente sto mettendo migranti ovunque, nelle canzoni, nei romanzi. Sarà che sto per andare a Genova, da dove immagino sia partito il mio trisnonno, quando migrò pure lui, e dall'America non fece più ritorno. Sarà che pure il cantante è migrato, a suo tempo. Sarà quel che sarà, io continuerei delle ore a fare "cucù" con la bambina che mi risponde "chichì" e mi tiene le mani, ma nel frattempo mi tocca riprendere il viaggio.
Strani intrecci del destino, pure sette mesi fa Ermal Meta l'ho sentito in Liguria, una notte d'estate in cui sapevo camminare e all'improvviso ho imparato a correre. Con il cuore, intendo. Stasera in teatro, accompagnato non dalla band ma da un quartetto d'archi. Me lo immagino psicologicamente impegnativo: che già a me l'acustico smuove i mondi interiori, già certi testi suoi mi smuovono gli universi, ora mettiamo insieme tutto e la prossima settimana è veramente il caso che io vada a fare un reset dal mio supervisore...
Tant'è.
Il Carlo Felice: nel senso del teatro, intendo. Un posto bellissimo, una bella acustica (no, non come il San Carlo di Napoli, ma va bene), queste pareti che non capisci se siano dentro o fuori. Mi piacciono, le cose ambigue. Sono come me, che non capisco mai bene se sono dentro o fuori, se vivo fuori o dentro. Comunque, pure io come il Carlo: Felice.
All'antefatto pensa Cordio. Tenerezza all'ennesima potenza. Umiltà. Essenzialità. La voce chiara, pulita, precisa, sopra un pianoforte e una chitarra (e il casino di quelli che ancora non hanno trovato il posto e non hanno capito che non è che se la chiamano la poltrona gli va incontro, e che diamine....!). Ha modificato di nuovo un paio di versi de "Il Paradiso", scelta azzeccata peraltro, e segno di una ricerca che non ha punti d'arrivo ma ripartenze. Niente "Ritratti post-diploma", ma "Angoli e spigoli" e quando attacca "La nostra vita" ho il sorriso ebete più bello di sempre: "...non ci pensare al tuo corpo che cambia, lascia qualcosa che poi resterà, perché di te questo resterà: resteranno i tuoi occhi negli occhi di chi hai guardato davvero fino in fondo nell'anima e come piccoli petali al vento girerà per il mondo quel fiore che, un giorno, hai lasciato volare dal tuo palmo di mano ed è andato lontano...". Dalla prima volta in cui l'ho ascoltata è diventata una specie di mantra. Ed è la canzone che ho insegnato ad una delle mie giovanissime socie di musica e su cui abbiamo fatto discorsi ed elucubrazioni. Insomma, sarebbe ora di farlo uscire, 'sto album, giovanotto!
Dall'antefatto al fatto passa il tempo di chiudere il sipario, sparecchiare la tastiera e riaprire. Quartetto in poleposition, Ermal al pianoforte. In pochi minuti, mi si ribaltano le prospettive: il quartetto d'archi dà una vivacità nuova, una luce diversa ai pezzi. Chissà perché a me i quartetti d'archi fanno sempre pensare alle veglie funebri e ai balli pallosi al castello di Cenerentola. Niente di più sbagliato. Dai brani più tranquilli a quelli più tosti (non mi aspettavo potesse fare persino "Molto bene, molto male") arriva una forza inattesa, né in più, né in meno: diversa. La voce accarezza il cuore. Sono diversa anch'io, da quando li ho sentiti l'altra volta, ora col cuore corro davvero, e sorrido, sorrido, ora ho in mano tutti i pezzi della mia essenza e stasera li rivedo tutti, uno per uno. E sorrido, sorrido, mentre lui ci chiede di cantare e noi si tiene la voce bassa perché sembra abbiamo paura di sciupare l'atmosfera. E sorrido, sorrido, quando lui racconta di quando suonava la chitarra per rimorchiare e finiva che i suoi amici limonavano e lui faceva la colonna sonora: mi viene in mente "Sally" di Vasco, suonata con la fisa.... ecco, allora non capita solo ai musicisti sfigati tipo Linda Eileen, capita anche agli Ermal Meta! E sorrido, sorr... no, aspetta, non sorrido più. Perché ovviamente me le fa, quelle due canzoni, "Le luci di Roma" e "A parte te", che ho legato a due persone cui voglio bene e che sono andate avanti. Il teatro si riempie di lucine e sempre meno si capisce il dentro e il fuori. Sembra che il cielo sia sceso giù. Sembrano davvero le stelle con cui parlare, quelle stelle da cui almeno in due mi accompagnano. Ve l'avrei raccontata, questa nottata, e invece la sapete già, ne sono certa, ovunque voi siate. Fanno bene, le lacrime silenziose, che scivolano lente sulla guancia: sono come pioggia che fa rifiorire il sorriso.
Non conosco il pezzo dei Muse di cui fa la cover, ma "Amara terra mia" sì, e la adoro, in quella versione, in cui riesce a usare anche una timbrica femminile.
Il concerto si chiude così. Esco per strada: Genova è bella, di notte, forse più che di giorno. Genova che ad ogni passo fa pensare a Bindi, Tenco, De André; Conte. Genova con le trattorie nelle strettoie, i vicoletti, le luci dei lampioni e il cielo sereno nell'aria fresca di primavera. Mio malgrado, torno in ostello. Ho in testa tanti pensieri, tante idee, tante riflessioni. Tante parole ascoltate in queste due ore che risuonano, echeggiano, limpide. Mi addormento subito. Buon segno. E nel primo dormiveglia mi accorgo di una cosa: sorrido, sorrido.
Primo treno in ritardo, secondo pure, ma ho calcolato tutto per contemplare anche l'imprevisto. Giunta a Milano, mi toccano due diverse metropolitane. Ora, c'è una sola cosa a Milano che io detesti più della metropolitana: l'autostazione di Lampugnano. E da dove mi parte il Flixbus, se non da lì?
Nonostante sia una splendida giornata, opto per entrare in biglietteria: all'esterno il puzzo di piscio e il tasso di gente che non si regge in piedi non fanno venire voglia di valutare alternative... Mi siedo e, improvvisamente, di fronte a me si materializza Antonio, un caro amico marchigiano. Non è lui, ovviamente, gli assomiglia. Per la verità, somiglia parecchio pure ad un ragazzo con cui suono in banda, che però non ha nulla a che fare con Antonio. Ecco, è tipico: quando mi sento in situazioni in cui mi sento un po' persa, inizio ad avere queste visioni. All'improvviso, una pallottolina vestita di rosa si schianta sul mio ginocchio e comincia a ridere. Mi tocca, vuole giocare. Non è una visione, stavolta: lei c'è. Una bimba di colore bellissima. C'è un sacco di gente, realizzo, e con la pelle chiara saremo in quattro, comprese due orientali. Deformazione professionale, inizio a giocare con la bimba. Cade e arriva un bimbo un po' più grande ma più smilzo, lui pure di colore, che la rialza e, considerata la differenza di peso, cade pure lui. A quel punto, cadono anche tutte le valigie. Una delle due orientali ed io aiutiamo a raccoglierle e continuiamo a giocare con i bambini. Sorrisi, versetti. Chissà se almeno tra loro parlano la stessa lingua. Non saprei. Visto da fuori, sembra una di quelle foto delle missioni in Kenya. Ed ecco che si materializza Salvini. Ah no, è un autista. pure lui sorride ai bambini e fa "ciao ciao" con la mano. Il bimbo è serio, la bimba ride. A me, invece, viene il magone. Perché c'è qualcosa di bellissimo, in questo momento. Sarà che ultimamente sto mettendo migranti ovunque, nelle canzoni, nei romanzi. Sarà che sto per andare a Genova, da dove immagino sia partito il mio trisnonno, quando migrò pure lui, e dall'America non fece più ritorno. Sarà che pure il cantante è migrato, a suo tempo. Sarà quel che sarà, io continuerei delle ore a fare "cucù" con la bambina che mi risponde "chichì" e mi tiene le mani, ma nel frattempo mi tocca riprendere il viaggio.
Strani intrecci del destino, pure sette mesi fa Ermal Meta l'ho sentito in Liguria, una notte d'estate in cui sapevo camminare e all'improvviso ho imparato a correre. Con il cuore, intendo. Stasera in teatro, accompagnato non dalla band ma da un quartetto d'archi. Me lo immagino psicologicamente impegnativo: che già a me l'acustico smuove i mondi interiori, già certi testi suoi mi smuovono gli universi, ora mettiamo insieme tutto e la prossima settimana è veramente il caso che io vada a fare un reset dal mio supervisore...
Tant'è.
Il Carlo Felice: nel senso del teatro, intendo. Un posto bellissimo, una bella acustica (no, non come il San Carlo di Napoli, ma va bene), queste pareti che non capisci se siano dentro o fuori. Mi piacciono, le cose ambigue. Sono come me, che non capisco mai bene se sono dentro o fuori, se vivo fuori o dentro. Comunque, pure io come il Carlo: Felice.
All'antefatto pensa Cordio. Tenerezza all'ennesima potenza. Umiltà. Essenzialità. La voce chiara, pulita, precisa, sopra un pianoforte e una chitarra (e il casino di quelli che ancora non hanno trovato il posto e non hanno capito che non è che se la chiamano la poltrona gli va incontro, e che diamine....!). Ha modificato di nuovo un paio di versi de "Il Paradiso", scelta azzeccata peraltro, e segno di una ricerca che non ha punti d'arrivo ma ripartenze. Niente "Ritratti post-diploma", ma "Angoli e spigoli" e quando attacca "La nostra vita" ho il sorriso ebete più bello di sempre: "...non ci pensare al tuo corpo che cambia, lascia qualcosa che poi resterà, perché di te questo resterà: resteranno i tuoi occhi negli occhi di chi hai guardato davvero fino in fondo nell'anima e come piccoli petali al vento girerà per il mondo quel fiore che, un giorno, hai lasciato volare dal tuo palmo di mano ed è andato lontano...". Dalla prima volta in cui l'ho ascoltata è diventata una specie di mantra. Ed è la canzone che ho insegnato ad una delle mie giovanissime socie di musica e su cui abbiamo fatto discorsi ed elucubrazioni. Insomma, sarebbe ora di farlo uscire, 'sto album, giovanotto!
Dall'antefatto al fatto passa il tempo di chiudere il sipario, sparecchiare la tastiera e riaprire. Quartetto in poleposition, Ermal al pianoforte. In pochi minuti, mi si ribaltano le prospettive: il quartetto d'archi dà una vivacità nuova, una luce diversa ai pezzi. Chissà perché a me i quartetti d'archi fanno sempre pensare alle veglie funebri e ai balli pallosi al castello di Cenerentola. Niente di più sbagliato. Dai brani più tranquilli a quelli più tosti (non mi aspettavo potesse fare persino "Molto bene, molto male") arriva una forza inattesa, né in più, né in meno: diversa. La voce accarezza il cuore. Sono diversa anch'io, da quando li ho sentiti l'altra volta, ora col cuore corro davvero, e sorrido, sorrido, ora ho in mano tutti i pezzi della mia essenza e stasera li rivedo tutti, uno per uno. E sorrido, sorrido, mentre lui ci chiede di cantare e noi si tiene la voce bassa perché sembra abbiamo paura di sciupare l'atmosfera. E sorrido, sorrido, quando lui racconta di quando suonava la chitarra per rimorchiare e finiva che i suoi amici limonavano e lui faceva la colonna sonora: mi viene in mente "Sally" di Vasco, suonata con la fisa.... ecco, allora non capita solo ai musicisti sfigati tipo Linda Eileen, capita anche agli Ermal Meta! E sorrido, sorr... no, aspetta, non sorrido più. Perché ovviamente me le fa, quelle due canzoni, "Le luci di Roma" e "A parte te", che ho legato a due persone cui voglio bene e che sono andate avanti. Il teatro si riempie di lucine e sempre meno si capisce il dentro e il fuori. Sembra che il cielo sia sceso giù. Sembrano davvero le stelle con cui parlare, quelle stelle da cui almeno in due mi accompagnano. Ve l'avrei raccontata, questa nottata, e invece la sapete già, ne sono certa, ovunque voi siate. Fanno bene, le lacrime silenziose, che scivolano lente sulla guancia: sono come pioggia che fa rifiorire il sorriso.
Non conosco il pezzo dei Muse di cui fa la cover, ma "Amara terra mia" sì, e la adoro, in quella versione, in cui riesce a usare anche una timbrica femminile.
Il concerto si chiude così. Esco per strada: Genova è bella, di notte, forse più che di giorno. Genova che ad ogni passo fa pensare a Bindi, Tenco, De André; Conte. Genova con le trattorie nelle strettoie, i vicoletti, le luci dei lampioni e il cielo sereno nell'aria fresca di primavera. Mio malgrado, torno in ostello. Ho in testa tanti pensieri, tante idee, tante riflessioni. Tante parole ascoltate in queste due ore che risuonano, echeggiano, limpide. Mi addormento subito. Buon segno. E nel primo dormiveglia mi accorgo di una cosa: sorrido, sorrido.