Tre minuti al duemila… Tre minuti: a tutti, buona fortuna.
Manca poco alle 23.57 del 3 maggio 2020: a quel punto, mancheranno 3 minuti al 4 maggio. L’alba di questo 4 maggio, di questa fase due, mi ricorda tanto le ore che precedettero l’inizio del 2000. Al cambio del millennio ci siamo fatti trovare con mille speranze, mille propositi di cambiamento, mille barlumi di consapevolezza che non sarebbe cambiato granché, ma l’importante era credere che sarebbe stata un’era nuova. Per quelli nati nel mio anno, il 2000 sarebbe stato ancora più speciale: il primo diritto di voto, la prima Giornata Mondiale della Gioventù, la patente, per molti l’ultimo anno delle superiori, per qualcuno il prof di latino che comunque vaticinava che fintanto che non avessimo avuto una casa e un bancomat saremmo stati gli stessi di prima. Sant’uomo. Sorvoliamo sul fatto che abbiamo avuto giusto il tempo di festeggiare il 2000, mandare Nostradamus a suonare l’organo di Baggio, litigare perché qualcuno ha iniziato a dire che il 2000 era l’ultimo anno del secondo millennio e non il primo del terzo, e subito ci siamo ritrovati nel 2001 con l’11 settembre, il terrorismo globale, una nuova crisi mondiale e anche quelli del mio anno hanno avuto il loro tributo di coetanei avvolti nella bandiera. Sorvoliamo, prima che qualcuno mi accusi di fare analogie che portano sfiga (e comunque dai, direi che stavolta Nostradamus non serve…). Antonello Venditti cantava il verso con cui ho aperto questo scritto. Mi sono sempre chiesta se quel “buona fortuna” fosse un augurio o un concentrato di sarcasmo…
Ad ogni modo, da quando è iniziato il “lockdown”, non ho scritto nulla sul tema. Certo, non sono scomparsa dai social, ma ho cercato di pubblicare cose che trovavo belle, cose in cui credo. La fede, la musica, ricordi. Tante volte mi sono messa a comporre un commento sotto certi post, per poi cancellare tutto, lettera dopo lettera, prima di pubblicare. Oggi, forse, qualcosa mi sento di dire. Detto tra noi, all’inizio, questa storia dell’ “andrà tutto bene” mi è sembrata carina, anzi di più: era una bella idea, una bella speranza. Tanto quanto “questo periodo sta tirando fuori il meglio dalle persone”. Più passava il tempo, meno mi convinceva e meno la trovavo realista. Sarò impopolare, ma no, non andrà tutto bene.
IL DISAGIO.
È iniziato tutto poche ore dopo il decreto dell’8 marzo. Lunedì 9, pomeriggio, prendo la mia bella valigia, grande, blu, ed esco di casa. Cinquanta metri e trovo due signore. Una mi fissa e dice all’altra: “Eccola, la cretina che c’impegola su tutti! Perché che viene o che va, questa c’impegola!”. Ora, tralasciando che in questa situazione due donne anziane in strada a braccetto in tempi di distanza sociale fanno un po’ il bue che dà del cornuto all’asino, la prima reazione è stata il pensiero che ero stata giudicata ingiustamente: quella donna, di me, non sapeva niente. Non si è minimamente chiesta cosa avessi nella valigia, perché fossi in giro nel deserto dello “state a casa”. Chissenefrega se la valigia che stavo caricando in macchina contiene tutto il mio strumentario di musicoterapista e stavo andando a lavorare: una bella etichetta con su scritto “cretina”, un’altra con su “untora” (per chi non lo sapesse, da noi “impegolare” si traduce in “contagiare”, ma proprio nel senso brutto… più tipo “appestare”, ecco) e via. Mi sono detta che, in fondo, a volte certi anziani hanno pregiudizi verso chi è più giovane. Ho dato tante di quelle attenuanti che, alla fine, mi sentivo più a disagio di prima.
ERRORE.
Probabilmente non avevo ancora digerito l’episodio, nei giorni successivi. In ogni caso, non potendo uscire (lavoravo un pomeriggio alla settimana) ho iniziato a passare più tempo sui social. Il disagio che avvertivo si è fatto esponenziale. Facebook è diventato un tribunale sommario. “Fai qualcosa che io non ho fatto? Sei un coglione. È l’unico motivo”. C’è gente (tanta) che se l’è presa con chiunque: chi partiva, chi restava, chi lavorava, chi non lavorava, chi correva, chi cucinava, chi cantava dai balconi, chi dava segni di pessimismo, chi pregava, chi non pregava. È giusto, mi sono detta, non la pensiamo tutti allo stesso modo. Però, riflettendoci, uno dovrebbe un attimino argomentare. L’argomentazione più frequente variava da “stronziiii!” a “capreeee!”. I candidati al Nobel per la pace e la letteratura, insieme, quest’anno potrebbero assegnarlo a chi, scrivendo post in lingua corretta, ha evitato di augurare a qualcuno amenità tipo “finire in terapia intensiva e non trovare un respiratore libero”. Direi che già così si fa una bella preselezione.
IL CAPRO ESPIATORIO.
È sempre colpa di qualcuno. E, tendenzialmente, quel qualcuno ha un pensiero diverso. Ho visto denigrare una mamma che scriveva che non ce la faceva più a tenere in casa il proprio bimbo. Le hanno dato della stupida incapace di gestire un figlio capriccioso. Ha un bambino bellissimo. Di quelli che, a guardarli in fotografia, non lo direbbe nessuno che è diversamente abile; vivono in un appartamento piccolo, con un balcone grande come una scatola da scarpe. È facile sparare a zero, quando hai il giardino e il figlio sano. “Ma io non lo sapevo…”. E allora sarebbe meglio di ciascuno chiedersi “ne so abbastanza?”, prima di sparare sentenza. E poi, cortesemente, tacere ugualmente. Si chiama empatia. E il fatto che la legge non ammetta ignoranza dovrebbe diventare un concetto molto più esteso di quanto sia.
LA COERENZA.
In uno stesso profilo ho trovato post a sostegno delle battaglia-social contro i razzisti che affonderebbero i barconi e post con scritto “i teroni, le solite merde”.
Ho trovato quelli (tre genitori e un docente) che per dissentire dalle scelto di un Ministro dal cognome infelice, pur ammettendo che non saprebbero come risolvere il problema, trovano una soluzione nello storpiare volgarmente il cognome del suddetto Ministro. Mi chiedo se, oltre a pubblicare contestualmente post contro il body-shaming (“perché uno dovrebbe essere giudicato per ciò che fa e non per com’è nato”… perché chiaramente uno non sceglie di avere le orecchie a sventola o un naso alla Cyrano, ma si sceglie il cognome infelice?), correranno anche ad attivare la commissione anti-bullismo a scuola, alla prima occasione.
Il medico che ha chiesto di non dar retta ai ciarlatani e, due giorni dopo, scrive che la tisanina calda ti evita il Covid. #AhMaNonèLercio.
E dagli ai cinesi. No, aspetta, i cinesi ci aiutano. Gli alban… no, ci aiutano anche quelli. Allora hanno fatto una foto al vicino di casa, che esce! Peccato che ha 97 anni e sicuramente non rifletterà sul suo agire grazie ad un post su Facebook, che mai vedrà. Però intanto, più gogna per tutti!
AMEN!
Poi sono arrivati quelli dell’”Amen!”. Quelli, intendo, che sotto qualunque post scrivevano “amen!”. Compresi , anzi: soprattutto, i post più beceri, più carichi di aggressività verbale, di insulti, di minacce. È una parola densa di fede per cristiani, ebrei e musulmani, che ha a che fare con la Verità di Dio, con l’affidamento totale alla Sua bontà. In pratica, c’è chi ha maledetto qualcun altro confidando nella bontà divina. Parliamone. Anzi no, taciamone.
Ora, io non sono tanto convinta che sia uscito il meglio dalle persone. Cioè, chissà se fosse uscito il peggio! Questa è la normalità? La ricerca di un capro espiatorio, invece della solidarietà? Questo è il meglio che si riesce a fare, l’annullamento di ogni empatia? Chi ha incarnato certi atteggiamenti, riesce ad essere sereno, quando la sera si sdraia e ripensa a chi ha incontrato durante la giornata, magari gli stessi che tre settimane fa aveva insultato senza sapere nulla di loro e delle loro vite? Riesce ancora a dirmi che andrà tutto bene?
DISAGIO/2
Non ho cancellato nessuno dai miei profili social:non accetto il contatto di sconosciuti, il che implica che se anche cancello dal virtuale li incontro nel reale. Ma li ho quarantenati, oh sì, e con una certa soddisfazione! Non perché mi sentissi migliore, ma perché davvero ero a disagio. E in un momento in cui già il disagio non mancava per altri motivi, seri, non avevo nessun bisogno di amplificarlo. E più oscuravo, click!, come finestrine di uno stesso grattacielo che man mano vengono spente e permettono di riposare la vista e il cuore, più mi sentivo avvolgere da una sorta di serena oscurità, una bolla blu notte puntinata d’argento. Meglio soli che mal accompagnati. Solo che, da soli, a volte ci si perde. E a volte si perde.
LE COSE DA SALVARE.
Luca Barbarossa docet, per non smarrirmi del tutto, ho fatto l’elenco delle cose da salvare. Ho scoperto che, alla fine, è diventato l’elenco delle cose che mi hanno salvato.
Mi ha salvato una telefonata quasi quotidiana, a volte di pochi minuti, a volte di quasi un’ora, chiusa da “ci sentiamo domani”. Mi ha salvato perché, in tempi in cui l’isolamento viene regolarmente allungato, “ci sentiamo domani” è il futuro che si può promettere ed è qualcosa di bellissimo.
Mi ha salvato il solito amico musicista che da anni, nei miei momenti meno brillanti, di cui viene a conoscenza per via telepatica più che telematica, mi propone di scrivere una canzone. Together – Lontani ma insieme è nata così, lavorando con altre sei persone con la stessa esigenza di non essere sole e di voler vedere e mostrare un po’ di positività.
Mi ha salvato un flashmob con il gruppo rock con cui ho collaborato per qualche anno: da tempo non suonavamo più, l’abbiamo fatto in videoconferenza su Skype, con le finestre aperte o direttamente dal balcone.
Mi ha salvato il post della mamma di un bambino che ho avuto all’asilo anni fa, un post così ricco di tenerezza, di preoccupazione, che non ho saputo trattenermi dal commentare; volevo farle un pochino di coraggio e lei mi ha risposto qualcosa che mi ha commosso e ha dato coraggio a me.
Mi ha salvato l’uncinetto e il forno con le torte all’acqua, che ogni tanto mi accorciavano le giornate.
Mi hanno salvato un paio di amiche, con cui ridere anche quando c’erano tanti motivi per non averne voglia.
Mi ha salvato un ragazzone ospite della struttura in cui continuo a lavorare, quando mi ha detto “noi stiamo bene, l’importante è che stai bene tu, che sei fuori da qui, così noi ti aspettiamo”. Importante=tu… lui l’ha capito. Non aggiungo altro.
Mi hanno salvata i miei genitori, quando ci siamo trovati in piena sindrome della barca a vela, quella roba che viene quando sei costretto a stare insieme senza possibilità di evasione, proprio come su una barca in mezzo all’oceano, e senza dircelo abbiamo deciso di rinunciare ciascuno ad un pezzetto di sé per fare posto a un pezzetto dell’altro.
Mi ha salvata una collega con cui non ho lavorato in presenza per settimane, con le sue telefonate, le sue proposte, facendomi sentire che siamo una squadra nonostante tutto, insieme ai nostri bambini che ci hanno scritto, mandato foto e disegni. Anche se questo periodo mi ha fatto riflettere molto sulla mia identità professionale, andando a definire meglio le linee di un quadro che già si stava configurando da tempo, mi ha salvata davvero.
Mi ha salvata leggere un messaggio, sospeso a metà tra il mio senso di lontananza e la mia paura di essere invadente: “grazie della tua presenza”.
Mi ha salvato essere contattata da una persona di cui non sapevo nulla da oltre due anni, di cui spesso mi sono chiesta come stesse, dove fosse, e che non sapevo come rintracciare. È stata questa persona a riuscire a trovarmi e, sinceramente, non credevo di aver lasciato un simile ricordo. Mi ha salvato sentire che il poco che puoi fare, se fatto con il cuore, rimane. E ti ritorna, alla fine.
MORALE DELLA FAVOLA.
Tornando al principio, alle soglie della fase 2 mi sento come alle porte del 2000. Cambierà? Non cambierà? Da domani per me non cambierà quasi nulla, oggettivamente: non riprenderò subito ad andare a camminare, ad uscire, potrò continuare a lavorare fuori casa un solo pomeriggio a settimana. Non so ancora cosa farò, insomma, ma ho capito che ciò conta è la certezza di chi ci sarà. L’unica cosa di cui m’importa davvero.
Alla fine, credo che cambieremo noi, tutti. Parafrasando, penso che quelli che erano brave persone, lo saranno un po’ di più; quelli che erano stronzi, lo saranno di più (come dice un’amica, non è che se nasci tondo puoi morire quadrato) … e io? Beh, io speriamo che me la cavo!
TO’… LE 23.57!
Tre minuti: a tutti, buona fortuna!
Manca poco alle 23.57 del 3 maggio 2020: a quel punto, mancheranno 3 minuti al 4 maggio. L’alba di questo 4 maggio, di questa fase due, mi ricorda tanto le ore che precedettero l’inizio del 2000. Al cambio del millennio ci siamo fatti trovare con mille speranze, mille propositi di cambiamento, mille barlumi di consapevolezza che non sarebbe cambiato granché, ma l’importante era credere che sarebbe stata un’era nuova. Per quelli nati nel mio anno, il 2000 sarebbe stato ancora più speciale: il primo diritto di voto, la prima Giornata Mondiale della Gioventù, la patente, per molti l’ultimo anno delle superiori, per qualcuno il prof di latino che comunque vaticinava che fintanto che non avessimo avuto una casa e un bancomat saremmo stati gli stessi di prima. Sant’uomo. Sorvoliamo sul fatto che abbiamo avuto giusto il tempo di festeggiare il 2000, mandare Nostradamus a suonare l’organo di Baggio, litigare perché qualcuno ha iniziato a dire che il 2000 era l’ultimo anno del secondo millennio e non il primo del terzo, e subito ci siamo ritrovati nel 2001 con l’11 settembre, il terrorismo globale, una nuova crisi mondiale e anche quelli del mio anno hanno avuto il loro tributo di coetanei avvolti nella bandiera. Sorvoliamo, prima che qualcuno mi accusi di fare analogie che portano sfiga (e comunque dai, direi che stavolta Nostradamus non serve…). Antonello Venditti cantava il verso con cui ho aperto questo scritto. Mi sono sempre chiesta se quel “buona fortuna” fosse un augurio o un concentrato di sarcasmo…
Ad ogni modo, da quando è iniziato il “lockdown”, non ho scritto nulla sul tema. Certo, non sono scomparsa dai social, ma ho cercato di pubblicare cose che trovavo belle, cose in cui credo. La fede, la musica, ricordi. Tante volte mi sono messa a comporre un commento sotto certi post, per poi cancellare tutto, lettera dopo lettera, prima di pubblicare. Oggi, forse, qualcosa mi sento di dire. Detto tra noi, all’inizio, questa storia dell’ “andrà tutto bene” mi è sembrata carina, anzi di più: era una bella idea, una bella speranza. Tanto quanto “questo periodo sta tirando fuori il meglio dalle persone”. Più passava il tempo, meno mi convinceva e meno la trovavo realista. Sarò impopolare, ma no, non andrà tutto bene.
IL DISAGIO.
È iniziato tutto poche ore dopo il decreto dell’8 marzo. Lunedì 9, pomeriggio, prendo la mia bella valigia, grande, blu, ed esco di casa. Cinquanta metri e trovo due signore. Una mi fissa e dice all’altra: “Eccola, la cretina che c’impegola su tutti! Perché che viene o che va, questa c’impegola!”. Ora, tralasciando che in questa situazione due donne anziane in strada a braccetto in tempi di distanza sociale fanno un po’ il bue che dà del cornuto all’asino, la prima reazione è stata il pensiero che ero stata giudicata ingiustamente: quella donna, di me, non sapeva niente. Non si è minimamente chiesta cosa avessi nella valigia, perché fossi in giro nel deserto dello “state a casa”. Chissenefrega se la valigia che stavo caricando in macchina contiene tutto il mio strumentario di musicoterapista e stavo andando a lavorare: una bella etichetta con su scritto “cretina”, un’altra con su “untora” (per chi non lo sapesse, da noi “impegolare” si traduce in “contagiare”, ma proprio nel senso brutto… più tipo “appestare”, ecco) e via. Mi sono detta che, in fondo, a volte certi anziani hanno pregiudizi verso chi è più giovane. Ho dato tante di quelle attenuanti che, alla fine, mi sentivo più a disagio di prima.
ERRORE.
Probabilmente non avevo ancora digerito l’episodio, nei giorni successivi. In ogni caso, non potendo uscire (lavoravo un pomeriggio alla settimana) ho iniziato a passare più tempo sui social. Il disagio che avvertivo si è fatto esponenziale. Facebook è diventato un tribunale sommario. “Fai qualcosa che io non ho fatto? Sei un coglione. È l’unico motivo”. C’è gente (tanta) che se l’è presa con chiunque: chi partiva, chi restava, chi lavorava, chi non lavorava, chi correva, chi cucinava, chi cantava dai balconi, chi dava segni di pessimismo, chi pregava, chi non pregava. È giusto, mi sono detta, non la pensiamo tutti allo stesso modo. Però, riflettendoci, uno dovrebbe un attimino argomentare. L’argomentazione più frequente variava da “stronziiii!” a “capreeee!”. I candidati al Nobel per la pace e la letteratura, insieme, quest’anno potrebbero assegnarlo a chi, scrivendo post in lingua corretta, ha evitato di augurare a qualcuno amenità tipo “finire in terapia intensiva e non trovare un respiratore libero”. Direi che già così si fa una bella preselezione.
IL CAPRO ESPIATORIO.
È sempre colpa di qualcuno. E, tendenzialmente, quel qualcuno ha un pensiero diverso. Ho visto denigrare una mamma che scriveva che non ce la faceva più a tenere in casa il proprio bimbo. Le hanno dato della stupida incapace di gestire un figlio capriccioso. Ha un bambino bellissimo. Di quelli che, a guardarli in fotografia, non lo direbbe nessuno che è diversamente abile; vivono in un appartamento piccolo, con un balcone grande come una scatola da scarpe. È facile sparare a zero, quando hai il giardino e il figlio sano. “Ma io non lo sapevo…”. E allora sarebbe meglio di ciascuno chiedersi “ne so abbastanza?”, prima di sparare sentenza. E poi, cortesemente, tacere ugualmente. Si chiama empatia. E il fatto che la legge non ammetta ignoranza dovrebbe diventare un concetto molto più esteso di quanto sia.
LA COERENZA.
In uno stesso profilo ho trovato post a sostegno delle battaglia-social contro i razzisti che affonderebbero i barconi e post con scritto “i teroni, le solite merde”.
Ho trovato quelli (tre genitori e un docente) che per dissentire dalle scelto di un Ministro dal cognome infelice, pur ammettendo che non saprebbero come risolvere il problema, trovano una soluzione nello storpiare volgarmente il cognome del suddetto Ministro. Mi chiedo se, oltre a pubblicare contestualmente post contro il body-shaming (“perché uno dovrebbe essere giudicato per ciò che fa e non per com’è nato”… perché chiaramente uno non sceglie di avere le orecchie a sventola o un naso alla Cyrano, ma si sceglie il cognome infelice?), correranno anche ad attivare la commissione anti-bullismo a scuola, alla prima occasione.
Il medico che ha chiesto di non dar retta ai ciarlatani e, due giorni dopo, scrive che la tisanina calda ti evita il Covid. #AhMaNonèLercio.
E dagli ai cinesi. No, aspetta, i cinesi ci aiutano. Gli alban… no, ci aiutano anche quelli. Allora hanno fatto una foto al vicino di casa, che esce! Peccato che ha 97 anni e sicuramente non rifletterà sul suo agire grazie ad un post su Facebook, che mai vedrà. Però intanto, più gogna per tutti!
AMEN!
Poi sono arrivati quelli dell’”Amen!”. Quelli, intendo, che sotto qualunque post scrivevano “amen!”. Compresi , anzi: soprattutto, i post più beceri, più carichi di aggressività verbale, di insulti, di minacce. È una parola densa di fede per cristiani, ebrei e musulmani, che ha a che fare con la Verità di Dio, con l’affidamento totale alla Sua bontà. In pratica, c’è chi ha maledetto qualcun altro confidando nella bontà divina. Parliamone. Anzi no, taciamone.
Ora, io non sono tanto convinta che sia uscito il meglio dalle persone. Cioè, chissà se fosse uscito il peggio! Questa è la normalità? La ricerca di un capro espiatorio, invece della solidarietà? Questo è il meglio che si riesce a fare, l’annullamento di ogni empatia? Chi ha incarnato certi atteggiamenti, riesce ad essere sereno, quando la sera si sdraia e ripensa a chi ha incontrato durante la giornata, magari gli stessi che tre settimane fa aveva insultato senza sapere nulla di loro e delle loro vite? Riesce ancora a dirmi che andrà tutto bene?
DISAGIO/2
Non ho cancellato nessuno dai miei profili social:non accetto il contatto di sconosciuti, il che implica che se anche cancello dal virtuale li incontro nel reale. Ma li ho quarantenati, oh sì, e con una certa soddisfazione! Non perché mi sentissi migliore, ma perché davvero ero a disagio. E in un momento in cui già il disagio non mancava per altri motivi, seri, non avevo nessun bisogno di amplificarlo. E più oscuravo, click!, come finestrine di uno stesso grattacielo che man mano vengono spente e permettono di riposare la vista e il cuore, più mi sentivo avvolgere da una sorta di serena oscurità, una bolla blu notte puntinata d’argento. Meglio soli che mal accompagnati. Solo che, da soli, a volte ci si perde. E a volte si perde.
LE COSE DA SALVARE.
Luca Barbarossa docet, per non smarrirmi del tutto, ho fatto l’elenco delle cose da salvare. Ho scoperto che, alla fine, è diventato l’elenco delle cose che mi hanno salvato.
Mi ha salvato una telefonata quasi quotidiana, a volte di pochi minuti, a volte di quasi un’ora, chiusa da “ci sentiamo domani”. Mi ha salvato perché, in tempi in cui l’isolamento viene regolarmente allungato, “ci sentiamo domani” è il futuro che si può promettere ed è qualcosa di bellissimo.
Mi ha salvato il solito amico musicista che da anni, nei miei momenti meno brillanti, di cui viene a conoscenza per via telepatica più che telematica, mi propone di scrivere una canzone. Together – Lontani ma insieme è nata così, lavorando con altre sei persone con la stessa esigenza di non essere sole e di voler vedere e mostrare un po’ di positività.
Mi ha salvato un flashmob con il gruppo rock con cui ho collaborato per qualche anno: da tempo non suonavamo più, l’abbiamo fatto in videoconferenza su Skype, con le finestre aperte o direttamente dal balcone.
Mi ha salvato il post della mamma di un bambino che ho avuto all’asilo anni fa, un post così ricco di tenerezza, di preoccupazione, che non ho saputo trattenermi dal commentare; volevo farle un pochino di coraggio e lei mi ha risposto qualcosa che mi ha commosso e ha dato coraggio a me.
Mi ha salvato l’uncinetto e il forno con le torte all’acqua, che ogni tanto mi accorciavano le giornate.
Mi hanno salvato un paio di amiche, con cui ridere anche quando c’erano tanti motivi per non averne voglia.
Mi ha salvato un ragazzone ospite della struttura in cui continuo a lavorare, quando mi ha detto “noi stiamo bene, l’importante è che stai bene tu, che sei fuori da qui, così noi ti aspettiamo”. Importante=tu… lui l’ha capito. Non aggiungo altro.
Mi hanno salvata i miei genitori, quando ci siamo trovati in piena sindrome della barca a vela, quella roba che viene quando sei costretto a stare insieme senza possibilità di evasione, proprio come su una barca in mezzo all’oceano, e senza dircelo abbiamo deciso di rinunciare ciascuno ad un pezzetto di sé per fare posto a un pezzetto dell’altro.
Mi ha salvata una collega con cui non ho lavorato in presenza per settimane, con le sue telefonate, le sue proposte, facendomi sentire che siamo una squadra nonostante tutto, insieme ai nostri bambini che ci hanno scritto, mandato foto e disegni. Anche se questo periodo mi ha fatto riflettere molto sulla mia identità professionale, andando a definire meglio le linee di un quadro che già si stava configurando da tempo, mi ha salvata davvero.
Mi ha salvata leggere un messaggio, sospeso a metà tra il mio senso di lontananza e la mia paura di essere invadente: “grazie della tua presenza”.
Mi ha salvato essere contattata da una persona di cui non sapevo nulla da oltre due anni, di cui spesso mi sono chiesta come stesse, dove fosse, e che non sapevo come rintracciare. È stata questa persona a riuscire a trovarmi e, sinceramente, non credevo di aver lasciato un simile ricordo. Mi ha salvato sentire che il poco che puoi fare, se fatto con il cuore, rimane. E ti ritorna, alla fine.
MORALE DELLA FAVOLA.
Tornando al principio, alle soglie della fase 2 mi sento come alle porte del 2000. Cambierà? Non cambierà? Da domani per me non cambierà quasi nulla, oggettivamente: non riprenderò subito ad andare a camminare, ad uscire, potrò continuare a lavorare fuori casa un solo pomeriggio a settimana. Non so ancora cosa farò, insomma, ma ho capito che ciò conta è la certezza di chi ci sarà. L’unica cosa di cui m’importa davvero.
Alla fine, credo che cambieremo noi, tutti. Parafrasando, penso che quelli che erano brave persone, lo saranno un po’ di più; quelli che erano stronzi, lo saranno di più (come dice un’amica, non è che se nasci tondo puoi morire quadrato) … e io? Beh, io speriamo che me la cavo!
TO’… LE 23.57!
Tre minuti: a tutti, buona fortuna!